È una frase che sorprende in un’epoca ossessionata dal culto della vittoria, incisa nei mantra di LinkedIn e nei TED Talk più imbarazzanti: “Perdere è un’opzione. Imparare a perdere, un superpotere.”
Jannik Sinner non è solo il numero uno al mondo. È un dissidente del dogma contemporaneo secondo cui solo chi non accetta la sconfitta può raggiungere la grandezza.

Chi ha osservato Sinner cadere – con la freddezza glaciale che fa impazzire le telecamere in cerca di un gesto isterico – sa che la sua forza non deriva da un’ossessione per il trofeo. Ma dalla sua intimità con il vuoto che si prova dopo aver perso. E proprio lì, in quel silenzio, Jannik ha costruito il suo arsenale invisibile.

Nel tennis, sport solitario per eccellenza, ci si sente soli due volte: quando si gioca e quando si perde. La sconfitta è uno specchio, non un verdetto. Ecco perché molti vincenti seriali sono, in verità, emotivamente fragili: abituati a guardare il fiume solo da una sponda. Sinner no. Sinner è cresciuto tra la neve di San Candido e le sconfitte dei primi tornei giovanili. La sua non è resilienza, termine ormai così abusato che suona come un filtro Instagram sul trauma. È consapevolezza. È postura interiore.

Quando affermiamo che “Sinner vince spesso perché sa perdere”, in realtà stiamo dicendo molto di più. Riveliamo una trasformazione professionale. Una nuova grammatica della performance, dove l’algoritmo non è vincere a ogni costo, ma imparare a sopravvivere a ogni costo. E poi vincere.

Nel lavoro, come nello sport, il culto dell’imbattibilità ha causato danni inimmaginabili. Ha generato manager nevrotici, startupper affetti da burnout precoce, imprenditori incapaci di distinguere un fallimento da un feedback. Nella Silicon Valley, la parola “fail” è stata adornata con glitter e cocaina: “fail fast, fail forward”, dicono. Peccato però che nessuno sopporti realmente il fallimento. Tutti pronti a celebrarlo su Medium, ma nessuno in grado di assimilarlo senza ansia da prestazione emotiva.

Sinner invece ha interiorizzato la sconfitta senza scriverci sopra un post motivazionale. La sua forza non risiede nei muscoli, nella velocità della prima di servizio o nella diagonale stretta di rovescio. Risiede nella sua disponibilità a essere vulnerabile. Che non è una debolezza, ma un software strategico. Quando perde, non si frantuma. Quando vince, non si esalta. È questa la dote che nel 2025 diventa rivoluzionaria: non l’invincibilità, ma la sostenibilità emotiva del proprio fallimento.

Perché ogni perdita è un feedback. Ma solo per chi ha il coraggio di ascoltarlo. Gli altri, quelli che non perdono mai – o così credono – sono i primi a sgretolarsi al primo ostacolo. Ecco perché nei team aziendali i veri asset non sono i vincenti, ma coloro che hanno appreso a gestire la delusione. Da lì si riformula la strategia. Da lì si reinventa la visione. Da lì si comprende se si è davvero pronti per il livello successivo.

Sinner, in questo, è un’anomalia statistica e culturale. Un italiano che non ha bisogno di sovraccaricare il proprio talento con la retorica dell’eroe. Non ha nemmeno l’ansia da prestazione identitaria di chi desidera rappresentare una nazione. È uno che sa perdere, e lo ha fatto prima, in silenzio, di fronte a pochi, molte volte.

Non è resiliente, è strutturalmente antifragile. E in un mondo che ti vuole sempre performante, l’antifragilità è la vera rivoluzione: quella che ti rende più forte grazie alla perdita, non nonostante essa.

C’è una frase di Hemingway che sembra scritta per lui:
“Il mondo spezza tutti, e poi molti sono forti proprio nei punti spezzati.”
Sinner ha trasformato ogni crepa in una cerniera. E ogni sconfitta in un protocollo di aggiornamento.

Nel tennis, le statistiche non raccontano tutto. Poiché esiste una metrica segreta, mai misurata: quanta paura hai di perdere? Maggiore è, più giochi contratto, più gestisci invece di osare. Sinner ha una soglia di panico sotto lo zero. E questo gli permette di colpire la palla come se il mondo non lo stesse osservando. Perché in fondo, nel suo mondo, la perdita non è mai un fallimento, ma solo un’altra lezione privata con sé stesso.

E questo, nei luoghi di lavoro, è ancora più raro che nello sport.

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